Volevo provare a mostrare – attraverso la personalità di un uomo affascinante, che aveva vissuto profondamente queste epoche, susseguitesi una dopo l’altra – il mondo contemporaneo, fatto di tante, troppe precarietà, troppe solitudini, troppe variabili dipendenti tra loro.
Mi ero dunque reso conto che la trama si stava sviluppando in modo coinvolgente nella fase in cui la scaletta si era resa sempre più stringata. Mentre la prima parte era decisamente più dettagliata, ed ero riuscito a svilupparla con maggiore dovizia, salvo poi accorgermi (poi dirò come) che avevo un po’ esagerato, in quella successiva mi ero trovato con le briglie più sciolte, al punto tale dal decidere di divertirmi nel dare voce a più io narranti. È vero, questa tecnica era già stata utilizzata nel romanzo Confessioni di un evirato cantore, anche se la stesura di Bacchetta in levare era stata completata prima: ma l’idea che avevo in mente era quella di creare la coralità dell’azione, di far vedere uno stesso episodio da più visuali, quasi contemporanee tra loro, un po’ come avviene in un film, il flusso si sviluppa, va avanti, e di volta in volta interagiscono i vari personaggi.
Mi piaceva l’idea di una trama in movimento, dove non ci dovesse essere la solita narrazione in terza persona, bensì una selva di vari soggetti che, uno dopo l’altro, saltano fuori sulla scena, e si trovano coinvolti nel percorso della storia. Un po’ come durante una ripresa cinematografica o televisiva fatta in diretta, quando prima c’è una telecamera in funzione, poi un’altra ancora, e così via, con la differenza che qui c’era solo il fatidico e maledetto foglio di carta, o meglio, lo schermo bianco del pc portatile. Non disponevo di consigli per la scrittura, di manuali vari, a parte le solite letture fatte a spizzichi e bocconi, tra una pausa e l’altra della vita familiare. Però sentivo il desiderio di sperimentare qualcosa di diverso e nuovo. Ma ero consapevole che la parte più difficile doveva ancora arrivare: la terza parte.
Mi ero messo in testa, pazzo come un cavallo, l’idea di raccontare dal di dentro l’evoluzione di un concerto sinfonico. Sì, di tutto quello che accade quando il direttore d’orchestra entra sulla scena, sale sul podio, e inizia a dirigere. Un rituale, in apparenza, sempre uguale. Ma che ogni volta è diverso, affascina. E crea una tensione difficile da descrivere, da rendere su carta, da immortalare. Avevo un precedente, in proposito, nella recente narrativa italiana: Hotel Borg, il romanzo di Nicola Lecca, che puntualmente avevo divorato, curioso di verificare come diavolo fosse riuscito a cimentarsi nella storia affascinante di un direttore d’orchestra, Alexander Norberg, che decide di tenere un ultimo concerto con i Berliner Philharmoniker dedicato allo Stabat Mater di Pergolesi, in una piccola chiesa di Reykjavik. Ebbene, quando mi sono accorto che nel momento fatidico, in quel maledetto momento, il narratore cede il passo, e non prova a descrivere la musica, ma si limita a riproporre il testo di Jacopone da Todi, mi sono sentito male. E mi sono detto che quella era un’occasione perduta.
Insomma, il fatto di raccontare l’evoluzione di un concerto, attraverso l’io narrante del direttore, rappresentava per me una grande possibilità. Oserei dire anche: irrinunciabile. Ma non sapevo come e in che modo uscirne fuori.
Ho dunque interrotto la lavorazione del romanzo. E ho ripreso a leggere: stavolta nessun romanzo, bensì un manuale di direzione d’orchestra (quello di Hermann Scherchen) e uno di teoria musicale. Insomma, ho ricominciato a studiare musica. Poi, dato che avevo già individuato la struttura del programma del concerto ipotetico del protagonista, ho iniziato a cercare la partitura giusta della sinfonia n. 8 di Anton Bruckner. Solo che… non sapevo che Leopold Nowak avesse realizzato due edizioni critiche della stessa sinfonia, basate però su altrettante stesure.
All’inizio, infatti, avevo ordinato presso l’editore tedesco Schott l’edizione sbagliata. Me ne sono accorto tuttavia dopo aver esaminato la partitura orchestrale, passo dopo passo, essendomi reso conto che diverse parti strumentali erano profondamente diverse, rispetto a come suonavano nei file audio della revisione prescelta, quella del 1890. Ho dunque ordinato l’altra partitura, rivelatasi quella giusta. Poi, non contento, ho fotocopiato la partitura tascabile in un formato di carta A4, provando ad identificare le varie pagine in coincidenza con i relativi minutaggi.
Mi sono immerso dunque in un linguaggio, in una scrittura diversa dalle solite. Quella delle partiture sinfoniche, fatta di righi musicali che vanno avanti insieme e creano un unico flusso sonoro, quello dell’orchestra. Una scrittura strana, fatta di saliscendi, pause, flussi nervosi che fanno capire quanta sofferenza ci fosse dietro quelle pagine intense, tese, estreme fino allo spasimo, che non aveva nulla a che vedere con quella narrativa, eppure mi affascinava, mi colpiva, e a mano a mano che leggevo le pagine della sinfonia, mi immergevo sempre di più nel dramma interiore di Enrico Liverani, come se fosse mio, come se io fossi Liverani, come se io fossi di fronte a questa orchestra di giovani musicisti in quella sala da concerto dall’acustica incredibilmente unica e perfetta. E mi sono reso conto, notte dopo notte, coinvolto nella fase preparatoria della stesura della parte terza, di quanta veridicità potesse esserci in una semplice trama di finzione.
Era molto strano, il modo di lavorare sviluppato in quel periodo. Dovevo infatti basarmi sulle sensazioni che si sprigionavano, oltre che dall’ascolto della musica, dalle dinamiche provenienti da tutti quei segni scritti, da tutte le sfumature concentrate nelle varie battute, una per una.
Il fatto di scandagliare l’intera partitura, per me che fino a quel periodo non avevo mai toccato una pagina di musica dai tempi in cui avevo provato, in età preadolescenziale, ad imparare a suonare il pianoforte, rappresentava una sfida immane. Ma era l’unico modo per cercare di entrare ulteriormente dentro la musica, per provare, non dico a capire, ma a cercare di afferrare anche una benché minima componente dei risvolti e dei flussi di comunicazione che il compositore intendeva esprimere all’atto della sua scrittura.
E, di conseguenza, di cercare di mutuare questi suoi gesti, questi suoi tic, queste sue estensioni della propria personalità, del proprio vissuto e del suo essere più intimo, coniugandole a mia volta all’immaginaria personalità del direttore d’orchestra, che vive la musica, la fa ricreare dal nulla, trasforma col suo gesto i segni della partitura in suoni vivi che vibrano nella sala da concerto, e crea una tensione vitale in grado di coinvolgere, emozionare, commuovere lo spettatore.
Durante quella strana fase di stesura, non potevo contare su una scaletta, ma sul lavoro tecnico sviluppato precedentemente, sull’analisi della partitura, che poi era di un profano come me, del tutto avulso dall’abitudine di maneggiare fascicoli complessi come quelli di sinfonie o poemi sinfonici. Come se non bastasse, avevo avuto il folle coraggio di ricominciare a leggere la musica, non partendo da qualcosa di apparentemente facile, come potrebbe sembrare, tanto per fare un esempio superficiale, una sinfonia di Haydn.
No, assolutamente! Avevo scelto di buttarmi su Bruckner, sulla sua sinfonia più complessa e nel contempo più appagante. Forse perché, inconsciamente, conoscevo quelle musiche dall’età dell’adolescenza, quando mi era capitato di ascoltare, per la prima volta alla radio, l’Ottava sinfonia durante un concerto a Salisburgo del 1975 con i Berliner Philharmoniker diretti da Herbert Von Karajan.
Quelle musiche mi erano rimaste nella testa, anche negli anni successivi. Al punto tale da sentirne l’eco, d’estate, quando camminavo lungo la strada di Brunetti. Di riconoscere questo o quel passaggio strumentale, identificandolo a questo o quello squarcio collinare.